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venerdì 20 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: ‘The Neon Demon’


Nicolas Winding Refn ha realizzato un horror surrealista baroccamente perverso e disgustoso ambientato nel mondo della moda di L.A.  f. Non è noioso, ma c'è meno di quanto non sembri.


La trepidazione è una cosa facile da avere a un festival cinematografico, ed è corretto affermare che lo stato d'animo di cosa-farà-adesso? che ha preceduto la premiere di Cannes in cui è stato mostrato "The Neon Demon," il nuovo film di Nicolas Winding Refn, era particolarmente fremente, e a ragione. Refn può essere un regista di stravagante umanità, come ha provato “Drive,” e anche di stravagante inumanità, come ha provato in “Only God Forgives,” la voluttuosa e ridicola fantasia di vendetta che fu aspramente detestato quando fu mostrato a Cannes nel 2013. Svitato come era, comunque, “Only God Forgives” aveva qualche momento indelebile (come Ryan Gosling con aria aflitta che si presenta per avere le sue mani mozzate),e suggerì che Refn potesse possedere la melodrammatica audacia per creare un avvincente film horror.

Un film horror è ciò che“The Neon Demon” è (una sorta). È ambientato nel mondo della moda di Los Angeles, ed è il tipo di film in cui le modelle sembrano manichini che sembrano cadaveri di un film slasher, e i cadaveri hanno l'aspetto di oggetti d'amore. La bellezza si mischia con la carne maciullata, e ogni immagine fastidiosamente viscida sembra esser uscita da "Twin Peaks: Fuoco cammina con me" o "Shining" o una versione davvero malata di una pubblicità di Calvin Klein. Ogni scena, ogni inquadratura, ogni battuta, ogni pausa è così ipnoticamente composta, così lussuosamente sovraintenzionale, che il pubblico non può fare a meno di supporre che Refn sa esattamente cosa sta facendo - che ci sta predisponendo per l'uccisione.

Lo sta facendo, ma non se siete alla ricerca di un film che abbia un senso. (Oh, quello.) “The Neon Demon” è una tentatrice. Inizia come un thriller relativamente leggibile, di facile comprensione, ma si rivela essere un film fatto da un macabro burlone surrealista e vomitevole. Jesse (Elle Fanning), un ingenua dalla pelle di pesca con i riccioli di un angelo biondo, arriva a Los Angeles subito dopo il suo 16esimo compleanno per iniziare una carriera come modella.  Le pin-up disincantate con cui deve competere sono vipere taglia gole dalla voce vellutata che hanno l'aspetto di quelle principesse di ghiaccio androide uscite dai video di Robert Palmer degli anni 80, e agiscono in modo persino più sporco di quanto lascino pensare. La ragione per cui odiano Jesse è che lei è una “It” girl, con quella speciale indefinibile qualità che l'intero mondo desidera. È chiamata innocenza, o autenticità erotica, o qualcosa che non può essere raggiunto da una mera combinazione di genetica olimpica, chirurgia plastica, e protesi al seno. 

Jesse, come capo della sua agenzia di modelle (Christina Hendricks) la informa che, ha la formazione della star. Ma tutto ciò che il suo splendore mangia pannocchie sembra attrarre sono presagi di violenza.  Refn, se non altro, è piuttosto bravo nei presagi. Di fatti, è più bravo nei presagi di quanto non lo sia a far seguito a ciò che essi presagiscono. Per un ora “The Neon Demon” è tutto incontri gelidi mesmerici che sembrano rimanere nell'aria, con un suggerimento di violenza perversa che è sempre in agguato dietro l'angolo.

Jesse ha affittato una stanza in uno squallido motel di due piani a Pasadena, e una notte apre la porta, e c'è una qualche sorta di intruso dentro.  (Come scopriamo, sembra essere scappato dallo zoo.) Persino peggio è il manager del motel, un vero cane invadente interpretato, in un altamente convincente cambio di ritmo, da Keanu Reeves. Allo studio di modeling, Jesse riesce a ottenere una sessione con uno di fotografi top della lista dell'agenzia, che le chiede di spogliarsi, poi la ricopre di vernice dorata - niente di ciò sarebbe granché disturbante se lui non trasmettesse la vibrazione di un serial killer che sta tracciando la sua vittima. Poi ci sono le altre modelle. Gigi, lo squalo bianco, è intepretato da Bella Heathcoate, che ricorda una più roboticamente perfetta Heather Graham, e Sarah, l'imbronciata Eurospazzatura, è interpretata da Abbey Lee, che sembra elevare la noia in qualcosa di omicida.

Refn tratta questi personaggi non come persone ma come oggetti pop, e ciò che costruisce al loro non è tanto un film di suspanse quanto una piece da sogno in cui vale tutto. Riscucchia influenze come un aspirapolvere estetico  - non solo Lynch e Kubrick (le sue due più ovvie divinità di riferimento) ma Dario Argento, il David Cronenberg di "Crash," e persino "Persona" di Ingmar Bergman. C'è una sequenza ambientata in un nightclub che include un triangolo al neon composto di tre triangoli più piccoli, e un immagine duplicata di tre Jesse (una delle quali bacia se stessa), e potrebbe ispirare due pensieri allo stesso tempo: "Wow, quello è proprio fico!" e "Ma che cazzo sta succedendo?"

In caso abbiate qualche dubbio su se “The Neon Demon” sia un film dal realizzatore di “Drive” o dal realizzatore di “Only God Forgives,” siamo chiari: è un film dal realizzatore di “Only God Forgives.”Probabilmente farà meglio al botteghino, comunque, in quanto i film horror, nell'era multisala del torture-porn-incontra il-J-horror-incontra-il-tinello, non devono avere per forza senso per aver successo. Ma se “The Neon Demon” avesse stretto la nostra immaginazione con più grande forza, avrebbe potuto essere un fenomeno invece che solo una curiosità Grand Guignolesca.

Dopo un po, la personalità da bimba innocente di Jesse inizia a cambiare un po. Sviluppa un senso del suo potere nel mondo della moda, flettendo i suoi tacchi a spillo con le punte d'acciacio, e inizia a diventare come una Eve Harrington la cui innocenza era solo una farsa. Ma Refn è così devoto a restare un passo avanti al suo pubblico, togliendo il terreno da sotto i nostri piedi - e il pavimento - che non può attenersi a nulla.  C'è una scena molto buona - nel suo modo malato, la più efficace del film - in cui il manager del motel di Reeves estrae un coltello e ci fa qualcosa di squisitamente orrendo. Se Refn avesse semplicemente lavorato con quel tipo di horro, avrebbe potuto fare un thriller atrocemente efficace. Ma sembra considerare la coerenza di tono come una svendita. Mette in scena una scena di seduzione lesbica piuttosto rozza, che spunta fuori dal nulla ma finisce per suggellare il fato di Jesse. C'è inoltre un gran finale che evoca ciò che è fatto per essere la catarsi del disgusto: coinvolge quella emozione preferita dal thriller, il senso di colpa, così come modelle legate in ciò che sembrano bretelle di arti fratturati, più - si - un globo oculare spia. Ah, l'orrore! Non l'orrore evocato dal film, ma lo scalcagnato orrore di e-adesso-che-cosa-farà dello storytelling di Nicolas Winding Refn. .

Durata: 117 MIN.
Produzione
A Jokers Films release of a Space Rocket Nation, Wild Bunch, Gaumont production. Prodotto da Lene Børglum, Sidonie Dumas, Vincent Maraval, and Nicolas Winding Refn. Produttori esecutivi, Michael Bassick, Brahim Cioua, Rachel Dik, Victor Ho, Steven Marshall, Cristophe Riandee, Thor Sigurjonsson, Jeffrey Stott, Gary Michael Walters, Christopher Woodrow. Co-produttori, K. Blaine Johnston, Elexa Ruth.
Crew
Diretto da Nicolas Winding Refn. Scritto da Refn, Mary Laws, Polly Stenham. Camera, Natasha Braier; montaggio, Matthe Newman;  Jake Roberts; production designer, Elliott Hostetter; costume designer, Erin Benach; music, Cliff Martinez; special effects, Wayne Burnes; casting, Nicole Daniels, Courtney Sheinin.
Con
Elle Fanning, Christina Hendricks, Keanu Reeves, Jena Malone, Abbey Lee, Bella Heathcoate, Desmond Harrington, Karl Glusman.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: variety.com

giovedì 19 maggio 2016

Recensioni dal Festival di Cannes: ‘Pericle il nero’


di Jay Weissberg

Un Sicario napoletano della mafia in Belgio commette un grande sbaglio e scappa in Francia in questo dramma del sottobosco criminale bilanciando realismo con pessimismo noir.

Un Napoletano trapiantato in Belgio che lavora come sicario per la mafia erroneamente uccide la sorella di un boss di un clan rivale e scappa in Francia in "Pericle il nero," un solido studio sul personaggio che soffre per un'eccessiva dipendenza dalla voce fuori campo in prima persona. I fratelli Dardenne sono i padrini del regista Stefano Mordini in molteplici modi: stilisticamente il film abbraccia il neo-realismo Belga, è parzialmente ambientato in Liège, e i Dardenne sono co-produttori. Mordini è stato per lungo tempo attratto dai distretti proletari (“Acciaio,” “Provincia meccanica”) quindi quello non è una novità, ma "Pericle il nero" è un lavoro molto più maturo rispetto ai suoi film precedenti, nonostante il gap di personalità tra il protagonista come visto sullo schermo opposto a ciò che si sente nella narrazione è fastidiosamente ampio. Il weekend di apertura in Italia ha raggiunto un rispettabile 110,000 dollari, mentre le prenotazioni oltre i territori familiari verranno per la maggior parte da esposizioni Italiane.

Pericle (Riccardo Scamarcio) si muove attraverso la vita in stordimento, recitando frettolosamente in film porno da quattro soldi ma principalmente agendo come cattivo per Don Luigi (Giorgio Morra), capo di una delle due famiglie criminali italiane in Belgio. All'esterno è privo di vita, persino quando pesta i nemici del Don sulla zucca con una busta di plastica piena di chiodi, ma nella sua testa è considerevolmente più verboso ed emotivo, oppresso da suo status di orfano e sentendosi disconnesso dal mondo.

Quando per errore uccide la sorella (Maria Luisa Santella) del rivale di Luigi, Pericle si da alla macchia, prima in una casa sicura (queste scene sono particolarmente oscure e ben realizzate) e poi sulla costa francese, dove cerca di rimorchiare Anastasia (Marina Foïs) in un caffé. Lei è insensibile all'inizio, ma la perseveranza paga e in men che non si dica lei lo riporta al suo appartamento per una bella scopata, persino dopo aver saputo che non ha un indirizzo al momento.

È probabile che molti spettatori non si berranno la fiducia immediata di Anastasia in un uomo che dorme nella sua macchina, specialmente considerando che ha due bambini - non è strano che dopo un incontro intimo lasci i suoi ragazzi alle sue cure?  Concesso che accenda il fascino quando è con lei - un fascino che non visto in altre circostanze - ma comunque la quasi istantanea fiducia rimane un elemento seccante in un film che altrimenti cerca duramente di bilanciare realismo con pessimismo noir.   L'idillio ovviamente non dura: c'è un oscutirtà nella personalità di Pericle, e quando realizza che Don Luigi l'ha venduto, è lasciato ancora una volta ad affrontare una vita di problemi che ruotano attorno all'abbandono familiare.

In classico stile noir, Anastasia rappresenta la luce e la bontà con il suo appartamento sulla spiaggia e due figli adorabili, dove Pericle, più a suo agio durante la notte, viene da un posto più oscuro. La sua voce narrante rivela una torturata, personalità vagamente consapevole di se stessa non intravista nella sua forma esterna, che tende a essere imbronciata e quasi monosillabica eccetto che con Anastasia. Certo non a causa di Scarmacio, che ha la pensosa intensità richiesta per il ruolo, il film fallisce nel rendere questi due lati del personaggio credibili come una sola persona, pertanto intralciando un senso di connessione con questo antieroe.

Meglio reso è il senso di questo mondo sotterraneo Napoletano incongruamente residente in un ambiente decisamente non suo.  La camera funziona come uno spettatore rapito, occhieggiando il mondo con un ammonitore senso di sfiducia, come se stesse appiccicata alla nuca dei personaggi assicurasse che non scappino. Riprese dei depressi paesaggi industriali del Belgio accentuano la connessione alla visione dei Dardenne mentre si ricollegano anche all'interesse di Mordini per il proletariato. Le canzoni sono usate acutamente per rinforzare l'atmosfera, dalla forza trainante di "Get Into It" dei The Strypes al lamentoso "Wild is the Wind" di Nina Simone.

Durata: 104 MIN. 
Produzione
(Italy-Belgium-France) A BiM Distribution release (in Italy) of a Buena Onda, Les Fils du Fleuve, Les Production du Trésor production, with Rai Cinema, with the participation of Tax Shelter du Gouvernement Fédéral de Belgique, Casa Kafka Pictures, Belfius, VOO et Be TV. (International sales : Rai Com, Rome.) Prodotto da Viola Prestieri, Valeria Golino, Riccardo Scamarcio. Co-produttori, Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne, Alain Attal. Produttori esecutivi, Delphine Tomson, Marie Le Mire, Xavier Amblard.
Crew
Diretto da Stefano Mordini. Sceneggiatura, Francesca Marciano, Valia Santella, Mordini, loosely based on the novel “Pericle il Nero” by Giuseppe Ferrandino. Camera (color), Matteo Cocco; montaggio, Jacopo Quadri; music, Peter von Poehl; production designer, Igor Gabriel; costume designer, Antonella Cannarozzi; sound, Jean-Pierre Duret; sound edit, Stefano Grosso, Daniela Bassani, Marzia Cordo’; associate producer, Philippe Logie; casting, Francesco Vedovati.
Con
Riccardo Scamarcio, Marina Foïs, Valentina Acca, Gigio Morra, Maria Luisa Santella, Lucia Ragni, Seloua M’Hamdi, Samuel Laurie. (Italian, French dialogue)

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:variety.com/

domenica 15 maggio 2016

Recensioni dal festival di Cannes: ‘The BFG’ di Steven Spielberg


 di Peter Debruge

Un Mark Rylance tutto digitale trionfa sul pubblico con il suo grande, grande cuore in una storia di amicizia proibita che serve come un 'ET - L'extraterrestre' di Steven Spielberg per una generazione tutta nuova.

Diciamo per ipotesi che i giganti esistano davvero. Che loro si aggirino goffamente per Londra, intorno all'ora delle streghe (mezzanotte), raccogliendo bambini dalle finestre degli orfanotrofi come spuntini notturni. Che uno tra di loro ha delle riserve riguardo tutto questo "cannibullismo" e potrebbe in realtà essere un buon amico, se gliene venisse data la possibilità. Non vi piacerebbe saperne a riguardo? Questa è la bellezza di “The BFG” di Roald Dahl, come portato in vita dal recente premio Oscar Mark Rylance: ci crederete. Non importa quanto fantastica la storia (e diventa piuttosto strano in alcuni punti), questa splendido adattamento diretto da Steven Spielberg rende possibile per i pubblici di ogni età di abituarsi a una delle più improbabili amicizie nella storia del cinema, risultante in una sorta di classico per famiglie istantaneo "essere umani" che una volta ci si affidava alla Disney per avere.

Il romanzo di Dahl ampiamente letto e quasi universalmente riverito inizia il suo viaggio per diventare un film di Spielberg circa 25 anni fa, pressappoco allo stesso tempo in cui il regista fece uscire uno dei suoi pochi fiaschi, la cacofonia che era una sgargiante rielaborazione di Peter Pan del 1991, "Hook - Capitano Uncino." Quel film propinò più idee cattive che buone, ma tra le sue lezioni a portar via c'era la nozione che la magia funziona solo fintanto che un bambino ci crede, e qui vediamo il principio messo in pratica. Tuttavia aspettare più di un paio di decenni significava abbandonare l'idea di scritturare Robin Williams come l'eponimo "Big Friendly Giant" (ndt. i grande gigante amichevole) (una scelta che avrebbe alterato interamente la chimica del film), è stato meglio che Spilberg abbia aspettato, che la tecnologia abbia raggiunto le ambizioni del progetto, consentendo a Rylance di diventare credibilmente un "runt" di 7 metri e mezzo - il più piccolo (sinora) in una razza di giganti in motion Capture.

“The BFG” sarà un film enorme. Questo è sottinteso: Con Spielberg al timone, “E.T. la sceneggiatrice di "E.t. L'extraterreste" Melissa Mathison alla macchina da scrivere (benché sia morta lo scorso novembre) e la meravigliosa immaginazione di Dahl - e vocabolario - all'avanguardia, il film ha un enorme potenziale al botteghino. Tuttavia, senza alcuna star cinematografica in piena regola o personaggi di una serie per far si che i pubblici di tutto il mondo vogliano vederlo, "The BFG" non avrà vita facile per avvicinarsi vicino ai 20 film con il più grande incasso di tutti i tempi (una lista in cui Spielberg attualmente detiene l'ultimo posto, con "Jurassic Park").

Fortunatamente, “The BFG”ha molte più cose in comune con "E.T." piuttosto che con "Hook," rappresentando ancora un altra opportunità per un giovane frainteso - in questo caso, Sophie di 10 anni senza genitori (l'esordiente Ruby Barnhill), che è sbalzata fuori dalla finestra del suo orfanotrofio ed è in fuga verso Giant Country - per connetersi con una creatura i suoi simili esseri umani semplicemente non capirebbero.  Per una certa generazione, “E.T.” rappresenterà per sempre il film per bambini definitivo, e mentre certamente appartiene al pantheon, c'è sempre stato qualcosa di profondamente inquietante nel modo in cui la storia devia dall'essere un'opportunità di legame intergalattico a una favola da panico su come gli umani inevitabilmente rovinino qualsiasi cosa (un difetto che sostituire walkie-talkie alle pistole semplicemente non poteva riparare.)

Qui, sono gli altri nove giganti - un orrendo, irritabile gruppo, facilmente il doppio della taglia del BFG, con nomi come Fleshlumpeater, Bonecruncher e Meatdripper (ndt. Mangiaammassidicarne, Spezzaossa e Grondacarne), e con denti delle dimensioni di una lapide - che rappresentanto una minaccia, si oppongono all'idea di fraternizzare con il loro cibo. (Se il BFG abbia adottato Sophie come suo cucciolo o viceversa è argomento aperto alla discussione, cio nonostante a ogni modo, è un'idea affascinante per i bambini.) Il BFG avrà anche adottato una dieta più illuminata, sostituendo interamente con un vegetale puzzolente chiamato Snozzcumbers che fa suonare i fagioli di Lima assolutamente deliziosi, ma il resto preferisce ancora una bella leccornia umana. E tanto quanto sono sensibili ai suoni le grandi orecchie del BFG, così è il nasone gigante del capo gigante Fleshlumpeater (Jemaine Clement) all'odore di un potenziale bocconcino umano.

Ma Sophie non si fa intimidire facilmente, e fortunatamente, il suo coraggio è coraggioso in quello che avrebbe potuto in altro modo essere un film fin troppo spaventoso per chiunque dell'età di Sophie o più piccolo. Il BFG non ha pianificato esattamente cosa fare con Sophie dopo averla sottratta dall'orfanotrofio, sebbene anticipando il tipo di reazione che toccò a E.T. (dove umani spaventati avebbero potuto catturarlo e metterlo in uno zoo), è chiaro che non può lasciarla andare a spifferare riguardo all'esistenza dei giganti su "la teletele scatola delle fandonie e la radio squittente." Spielberg trattiene una vera e propria introduzione fino a che la coppia arriva a Giant Country, ma ci fa affezzionare al personaggio immediatamente rivelando la vistosa capacità della creatura di nascondersi in piena vista, in quanto il BFG usa le sue migliori mosse ninja notturne per evitare di essere notato a Londra.

Mentre gli altri giganti sono stati progettati ampiamente da zero (e in quanto tali, sembrano in qualche modo più convincenti allo sguardo), con il BFg, c'è un innegabile rassomiglianza a Rylence. Se qualcosa, i suoi tratti sono stati limitatamente distorti per adattarsi alle sue nuove dimensioni: alto quanto una porta da calcio è ampia, con mani delle dimensioni di pedane del supermercato, enormi orecchie da elefante e un naso che non sfigurerebbe sul monte Rushmore. Per quanto piacevolmente delicate i tratti di Rylance possano essere, questa riconfigurazione da specchio deformante richiede alcuni aggiustamenti da parte nostra, lanciando alcune delle gag a causa della prospettiva nelle scne iniziali imparando-a-conoscere nella sua caverna - che sembra non del tutto diversa da alcuni set de lo Hobbit immaginati dal suo collaboratore su "Le Avventure di Tintin" Peter Jackson. 

Jackson inoltre introdusse Spielberg alla tecnologia che rese possibile "The BFG", ed è grazie a Joe Letteri e al team motion capture della WETA che Rylance - un caratterista il cui impatto spesso si basa sulla sua capacità di far sembrare facile ogni dato ruolo - ha successo nell'infondere nel suo avatr digitale di delicatezza e sfumature (l'esatto opposto di ciò che Williams probabilmente avrebbe apportato al ruolo). Senza voler fare alcuna offesa al pioniere del motion capture Andy Serkis, è eccitante vedere qualcun altro fare una di queste performance virtuali, anche senza Williams nel ruolo, chi può dire quante risate si sono perse lungo la strada.

Quello che di umoristico "The BFG" offre deriva quasi direttamente dal romanzo di Dahl, gran parte di esso dovuto al modo "sinuoso" di parlare del gigante in un dialetto conosciuto come "gobblefunk." Nel contempo, la sceneggiatura di Mathison eccelle maggiormente nell'approfondire il legame tra Sophie e il BFG piuttosto che a fare battute lungo il cammino. Se qualcosa, sembra abbassare i toni di alcune delle più scandalose gag di Dahl, inclusa una scena in cui Buckingham Palace erutta in un tripudio di "whizzpoppers" (ndt ripieni sibilanti...) (uno può solo immaginare come Eddie Murphy o Mike Myers avrebbero potuto portare questa flatulenta scena in un altra direzione). Ma lei inoltre ha inventato la miglior scena singola del film, sviluppando il fatto che il BFG cerca di compensare per la buffoneria di voler divorare gli umani degli altri giganti soffiando sogni piacevoli attraverso le finestre di bambini addormentati.

Su insistenza di Sophie, il BFG porta la ragazza con se in una spedizione di raccolta sogni, saltando attraverso una pozzanghera magica verso Dream Country, un mondo alla rovescia dove "phizzwizards" - letteralmente, la sostanza di cui i sogni sono fatti - circonda i rami di un albero gigante come il mesmerizzante screensaver Apple "Flurry". Insieme, la ragazza e il gigante inseguono queste sfocature fosforescenti come tante sfuggenti farfalle. Parlando esteticamente, è una sequenza assolutamente ipnotica, danto al collaboratore di lungo corso di Spielberg John Williams il momento più ricco da intensificare con una colonna sonora completamente orchestrale che riesce a incantare senza fare affidamento pesantemente come al solito su di un semplice ricorrente tema musicale.

Quelli che conoscono il libro di Dahl capiranno quanto vitali i sogni siano per risolvere la storia della distensione giganti-umani, e questa ipnotica "sequenza di sogno" - insieme a una coppia di altre scene ambientate nell'officina di miscelazione dei sogni del BFG - fanno sembrare la fantasiosa soluzione di Sophie quasi plausibile quanto l'idea che lei diventi amica dell'unico gigante benevolo del pianeta. Il finale, che porta il BFG faccia a faccia con la Regina d'Inghilterra, trova Spilberg fuori dalla sua zona comfort e dentro il reame della farsa, e nonostante gli adulti troveranno questa sezione regalmente sciocca, è un vasto miglioramento rispetto a scene simili in "Minions" e "Garfield 2."

Queste sono difficilmente i paragoni a cui potrebbe stare mirando Spielberg con quello che è chiaramente progettato per essere un classico a carriera inoltrata, sebbene arruolare l'assistenza della Regina è per quanto uno possa allontanarsi dal problematico ultimo atto di "E.T."  - il che non è per dire che guardare Sua Maesta strapare "whizzpoppers" sia necessariamente una soluzione migliore. A questo punto nella loro collaborazione, Spielberg e il direttore della fotografia. Janusz Kaminski sono arrivati a illuminare e definire le loro inquadrature in un tale modo da sembrare assolutamente prestigioso, come se le cose non potessero essere state fatte in modo migliore. Qui, quella qualità consente a Barnhill (che assomiglia a una versione meno preziosa della star di "Matilda" Mara Wilson) e al Rylance virtuale di coesistere in maniera convincente, specialmente nelle meravigliose steppe verde smeraldo di Giant Country, dove Spielberg ci invita a credere ai nostri occhi. 

6. Durata: 115 MIN.
Produzione
A Walt Disney Studios release of a Disney, Amblin Entertainment, Reliance Entertainment presentation, in association with Walden Media, of a Kennedy/Marshall Co. production. Prodotto da Steven Spielberg, Frank Marshall, Sam Mercer. Produttori esecutivi, Kathleen Kennedy, John Madden, Kristie Macosco Krieger, Michael Siegel. Co-produttore, Adam Somner.
Crew
Diretto da Steven Spielberg. Sceneggiatura, Melissa Mathison, based on the book by Road Dahl. Camera (color), Janusz Kaminski; editor, Michael Kahn; music, John Williams; production designer, Rick Carter, Robert Stromberg; costume designer, Joanna Johnston.
Con
Mark Rylance, Ruby Barnhill, Penelope Wilton, Jermaine Clement, Rebecca Hall, Rafe Spall, Bill Hader.

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE: variety.com

mercoledì 11 maggio 2016

Recensioni dal festival di Cannes: ‘Café Society'



di Owen Gleiberman

Jesse Eisenberg e Kristen Stewart fanno coppia nel bellissimo ma eccessivamente familiare triangolo amoroso Hollywoodiano di Woody Allen.

Avventurandosi nel nuovo film di Woody Allen, c'è sempre la speranza che sia un film importante, come “Blue Jasmine,” e non una delle sue inezie, come i film di Allen che hanno aperto il Festival del cinema di Cannes in anni recenti (“Hollywood Ending,” “Midnight in Paris”). A questo punto, comunque, i suoi trascorsi di gran lunga favorisce la probabilità che sia un inezia, a quel punto la domanda quindi diventa: Sarà uno dei suoi buoni - che è, uno di quelle fiabe Alleniane che cantano davvero? “Café Society,” che vede come interprete Jesse Eisenberg come uno sfigatello del Bronx dolcemente naive che si trasferisce a Hollywood negli anni 30 in cerca di fortuna, è stato realizzato con tutta la verve e l'eleganza in grande stile e magnetismo da stella di una gemma Alleniana di scala minore.  Tuttavia il film, guardabile così com'è, non supera mai la sensazione che sia uno sfarzoso bozzetto che si sforza di fare la figura di un vero film.  Con intermittenti scintille romantiche che scoccano tra Eisenberg e la sua coprotagonista, una posata e radiosa Kristen Stewart, “Cafe Society” ha più probabilità di attirare una larga fetta del pubblico di Allen rispetto ai suoi ultimi due, “Magic in the Moonlight” e “Irrational Man.” Ma ci potrebbe essere un limite al suo successo, visto che è uno di quei film di Allen che continua a parlare di passione invece di farla sentire al pubblico.

Eisenberg, magnifico in ampi pantaloni con le pince e un ciuffo riccioluto, è l'ultimo di unalunga seri di attori a cui è stata data l'ovvia direttiva di incanalare lo spirito di Allen sullo schermo. Ma ne fa un lavoro più accattivante della maggior parte, perché i vezzi di Eisenberg - la stravagante abilità verbale, il lieve sputacchiare dell'insicurezza dell'accondiscendente - combacia così organicamente con quello dello stesso Allen. Eisenberg interpreta Bobby Dorfman, che arriva ad Hollywood cercando di ottenere un lavoro nell'ufficio di suo zio, Phil (Steve Carell), un agente veterano così potente che non può andare in giro a un party in piscina senzaessere venire assillato riguardo un qualche accordo che sta negoziando per Ginger Rogers o William Powell. Sospettiamo - o magari speriamo - che Phil sia il viscido personaggio che trascina Bobby nel suo mondo di fascino corrotto, ma Carrell, che appare piacevolmente polposo, interpreta Phil come un indaffarato, stralunato mensch di Tipo A che affida a suo nipote commisioni da sbrigare e che trova il tempo di presentarlo a tutte le persone giuste. 

Una di queste è la segretaria di Phil, Vonnie (Stewart), una esile ma disarmantemente equilibrata ex ingenua che sostiene di rifiutare il gioco di Hollywood. Porta Bobby in un improvvisato tour delle case delle celebrità, e discutono la qualità sopra le righe delle celebrità cinematografiche, che induce Vonnie a insistere: "Penso che sarei più felice essendo a grandezza naturale." Stewart fa percepire la realtà di quella battuta. Lei riversa un po dei suoi bloccanti vezzi per interpretare una donna di calore che, con un lampo, trattiene il suo ardore nascosto, e il spirito di calma sicurezza calza all'attrice meravigliosamente. È quella qualità che attrae il candido Bobby, e non passa molto prima che una cotta si manifesti.

C'è una svolta, ovviamente: Vonnie ha già un fidanzato — e quell'amante, rivelato fin dall'inizio, è nessun altro che Zio Phil, che ha promesso di lasciare sua moglie e sposare Vonnie.  Non c'è niente di davvero originale riguardo a questo dilemma di triangolo amoroso, specialmente in un film di Woody Allen, dove rispecchia direttamente così tanti scenari dei suoi primi lavori, in particolare il garbuglio adulterino di "Manhattan." La domanda è: Dove ci porterà questa volta? E la risposta si rivela essere: non in qualche posto molto interessante. Il Phil, di Carell, persino comunque stia traendo sua moglie, è ritratto come una tale vittima della sua stessa devozione romantica che è difficile fare il tifo contro di lui - e Vonnie, di fatto, insiste che ama entrambi gli uomini.

C'è un suggerimento di innovazione nel modo in cui si stagli su di un lussuosamente visualizzato sfondo del periodo Tinseltown. E, certo, l'ottima, fotografia dai toni scuri Vittorio Storaro è così mozza fiato che sembra quasi raccontare una sua storia. Storaro, quel maestro del colore e delle ombre, trasforma gli uffici e i ristoranti con pannelli di legno in un sogno a occhi aperti Art Deco, e quando Bobby e Vonnie sono seduti nella stanza di motel di Bobby e l'elettricità salta, l'improvvisa illuminazione a luce di candela sembra qualcosa uscita da "Barry Lyndon." Ogni scena in "Café Society" brilla di uno splendente classicismo. Tuttavia tutto ciò fa solo desiderare che Allen avesse portato in vita l'ambientazione della Vecchia Hollywood con un senso del dramma e della sceneggiatura più ricco, nel modo in cui i fratelli Coen hanno fatto in "Hail, Ceasar!"

Se vi state chiedendo cosa significhi il titolo, “Café Society” resi riferisce alla bella vita a New York City, dove Bobby ritorna dopo essere stato respinto da Vonnie. Va a lavorare nel nightclub posseduto dal suo fratello gangster stereotipato, Ben (Corey Stoll), e apparentemente trova il suo posto tra gli elegantoni, ma è difficile sfuggire alla sensasione leggermente deludenete che il film stia ricominciando dacapo. E questa volta, più che mai, sta dicendo piuttosto che mostrare. Allen ha scelto di narrare da se il film, che sembra un azzardo piuttosto innocuo, ma la sua voce, dopo un po', inizia a suonare quasi viscosa di melancolia didattica, e non possiamo fare a meno di notare che un sacco di cose che ci sta dicendo -Bobby conosce politici e gangster! Diventa un uomo di mondo! — avrebbe, di fatto, potuto essere la sostanza reale della trama del film. La piacevole interpretazione di Eisenberg non ha mai occasione di crescere; lo sviluppo del personaggio in larga parte si riduce al fatto che nel night club, lui inizia a indossare uno smoking bianco. Rimane quello stesso dolce ragazzo, che si strugge. Alla fine, quello sembra essere il punto: che moltissime persone se ne vadano in giro portando con se i fantasmi dell'amore - un sogno di ciò che avrebbe potuto essere. Ma questo è un messaggio che abbiamo bisogno di sentire nei nostri cuori, piuttosto che nelle nostre teste, se ci perseguiterà. Per lo più, “Café Society” vi lascia sognando del film che avrebbe potuto essere se Woody Allen l'avesse realizzato facendo ciò che ha fatto nei suoi migliori lavori: spingendosi fuori dalla sua zona comfort.

Cannes Film Review: 'Café Society'
Recensito al festival del cinema di Canne (opener), Maggio 11, 2016. Durata: 96 MIN.    

Produzione
An Amazon Studios release of a Gravier Prods. presentazione di Perdido production. Prodotto da Letty Aaronson, Stephen Tenenbaum, Edward Walson. Produttori esecutivi, Ron Chez, Adam B. Stern, Allan Teh.  

Crew
Diretto, scritto da Woody Allen. Camera (color, HD), Vittorio Storaro; editor, Alisa Lepselter; production designer, Santo Loquasto; art directors, Michael E. Goldman, Doug Huszti; costume designer, Suzy Benzinger; visual effects supervisor, Erin Dinur; assistant director, Danielle Rigby.

Con
Jesse Eisenberg, Kristen Stewart, Steve Carell, Blake Lively, Corey Stoll, Parker Posey. 

TRADUZIONE a CURA di DAVIDE SCHIANO DI COSCIA
ARTICOLO ORIGINALE:variety.com/